venerdì 8 luglio 2011

Bangladesh, una rivoluzione con ago e filo

In Bangladesh i 3/4 degli operai nell'industria tessile sono donne: cucitrici, sarte, magazziniere…le operaie del Bangladesh, che costano poco, stuzzicano l’appetito delle grandi ditte occidentali della distribuzione e delle marche della confezione: Wal-Mart, H&M, Tommy Hilfiger, Gap, Levi Strauss, Zara, Carrefour, Marks & Spencer… vi hanno delocalizzato la loro produzione od operano tramite intermediari.
Gli operai e le operaie nel settore tessile abbigliamento – quasi il 40% della manodopera industriale – si ribellano spesso, amareggiati dalla differenza tra i loro stipendi e i guadagni intascati dai fabbricanti ed esportati.
Le ultime manifestazioni, avviate nel maggio 2010, hanno mobilitato oltre 50.000 lavoratori. Scaglionate su molti mesi, irrompono a intermittenza. Sistematicamente represse dalle forze armate, hanno già provocato decine di morti e centinaia di feriti.
Dall’inizio delle proteste, per compensare l’inflazione che ha colpito i beni di prima necessità, i lavoratori chiedono un aumento del salario fino a 5.000 takas (51 euro) al mese contro i 1.663 takas (17 euro) attualmente pagati. A titolo di paragone, in Vietnam, gli operai guadagnano 75 euro e, in India, 112 euro (3). I manifestanti reclamano inoltre il rispetto dei diritti dei lavoratori: un giorno di riposo settimanale, i congedi per maternità, una giusta remunerazione delle ore lavorate e di quelle straordinarie, il rispetto dei diritti sindacali, ecc.
Gli scioperi frequenti hanno reso fragile il settore e terrorizzato i proprietari di stabilimenti, perché gli importatori non esitano a rilocalizzare un ordine quando non ottengono soddisfazione. Secondo la pratica del sourcing, gli ordini non sono concentrati in un unico paese, ma suddivisi secondo i prezzi e le competenze di ognuno, in modo che le grandi marche non debbano dipendere dagli eventuali rischi di produzione in uno di essi. Per rassicurare un’opinione pubblica internazionale preoccupata del carattere etico dei suoi acquisti, le marche più note hanno adottato codici di comportamento. Per Reena sono soltanto apparenze ingannevoli: «Quando un compratore straniero visita lo stabilimento, dobbiamo mentire circa le ore lavorate e, per i minorenni, sulla loro età. Sono costretta a sottoscrivere la mia scheda salariale mentre ne percepisco solo una parte. E appena i compratori hanno girato l’angolo, ci tolgono le bottiglie d’acqua che sono molto care da noi».
C’è poi l’incredibile rompicapo della cascata di subappalti, che confonde i passaggi tra appaltatore e operai, a scapito dell’applicazione dei codici di comporthttp://www.blogger.com/img/blank.gifamento.
I marchi, i datori di lavoro e il governo si rimpallano le responsabilità. Rubayet Jesmin, degli affari economici della Commissione europea a Dacca, non ha peli sulla lingua: «Tutto deriva dalla responsabilità dei proprietari di stabilimenti, dei compratori e, per finire, dei consumatori. Quando questi ultimi comprano una maglietta che costa 6 euro, gli deve venire il dubbio che è stata fabbricata da persone che lavorano in cattive condizioni!».
Contro tutto questo c'è un'alternativa, l'abbigliamento del commercio equo e solidale...
Per approfondire

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